lunedì 6 giugno 2016

Il fenotipo esteso della religione tra altruismo, punizione e competizione

Introduzione e riassunto

La nicchia non è solamente il recapito dellorganismo,
ma anzi rappresenta il suo ruolo nellecosistema - cioè quello che egli fa.
Luria, Gould & Singer 1984: 631

ResearchBlogging.org
Benvenute e benvenuti al terzo e ultimo post sui tempi profondi della religione e sull’inizio delle istituzioni sociali e religiose!

Come i lettori di vecchia data ricorderanno, in passato avevamo già trattato in poche pillole i presupposti cognitivi delle credenze. Per un paio di anni tutto sul blog è rimasto press’a poco tale e quale, fatta eccezione per qualche breve incursione interdisciplinare nel tema. Erano però rimaste delle notevoli lacune. Ovvero, come si è passati dall’aspetto cognitivo a quello sociale (e viceversa) nel corso del tempo profondo? Come coniugare l’aspetto mentale delle credenze con il lato comportamentale delle pratiche rituali? E, infine, come coniugare le enormi differenze storiche tra religioni diverse e i presupposti cognitivi universali di Homo sapiens? Eccoci quindi arrivati al nocciolo della questione, dove le caratteristiche della cognizione di H. sapiens si intrecciano con le sue peculiari organizzazioni sociali. Riprendiamo il filo del discorso e proviamo a sintetizzare i punti fondamentali ricordati nei due post precedenti.

Nel quadro dei tempi profondi della storia di Homo sapiens, l’istituzionalizzazione della religione ha indubbiamente agito come fattore di coesione, in quanto potenziatore culturale adatto allo sfruttamento dei meccanismi cognitivi deputati all’elaborazione di comportamenti sociali. Questo specialmente all’interno di quelle comunità che, allo scopo implicito di limitare la tensione sociale e per le contingenze dell’evoluzione culturale e tecnologica, si sono trovate ad avere a che fare con gruppi di individui sempre più numerosi e composti da potenziali estranei. La pietra di volta l’abbiamo già identificata in una serie di tratti etologici. Come rilevato nel 2011 da Kim Hill e colleghi, «il legame di coppia monogamo, il riconoscimento paterno all’interno di unità cooperative per l’allevamento sociale e la dispersione bisessuale abbiano facilitato sia relazioni frequenti e amichevoli tra i gruppi, sia la migrazione e la bassa vicinanza genetica dei coresidenti del gruppo» [1].

Ma non è tutto oro ciò che luccica. Vero Giano bifronte, questo modello di ultrasocialità può però condurre a un incremento di stress, di tensioni e di ostilità tra individui di sesso maschile appartenenti a differenti gruppi sociali [2]. Insomma, il contatto continuo con gruppi sempre più numerosi di estranei necessita di ulteriori meccanismi di controllo. La storia profonda della religione andrebbe pertanto simultaneamente collocata su un piano di belligeranza e di cooperazione, di espansione inclusiva e di disintegrazione esclusiva, di competizione e di cooperazione. Focalizzarsi solo sugli aspetti pro-sociali, come sembra andare di moda in alcuni ultimi studi accademici sull’argomento, è di fatto una posizione pregiudiziale che cela potenziali bias.

Come abbiamo visto nel post precedente, l’istituzionalizzazione della religione risponde all’esigenza meramente politica (se preferite, organizzativa) di poter giocare indifferentemente su entrambi i fronti, quello cooperativo e quello competitivo, patteggiando costantemente un equilibrio simbolico e instabile tra comunità interne (noi) ed esterne (gli altri). Adesso dobbiamo necessariamente tirare le somme chiamando in causa nel dettaglio l’organizzazione sociale delle parentele.

La religione come estensione della rete parentale


L'ultimo volume di William E. Paden, fresco di stampa.
Fonte: Bloomsbury.

William E. Paden ha proposto di considerare la religione come un esempio di niche construction, ovvero come prodotto secondario del linguaggio umano capace di modellare da sé la sua stessa nicchia ambientale e culturale. In quanto tale, esso ha reso possibile la creazione di rappresentazioni di oggetti e soggetti materialmente inesistenti: 
«Insieme all’oganizzazione sociale giunge un mondo costruito di oggetti prestigiosi, di relazioni di status sociale e di norme consacrate, così che le religioni, in quanto sistemi rituali per negoziare il benessere con gli dèi, diventino poi forme culturalmente progettate di ambienti “naturali”, spazi della mente e perciò ambienti secondari paralleli all’invenzione e all’uso di punte di lancia, utensili e fuoco» [3].
Gli individui costruiscono una realtà sociale alla quale si attengono nella misura in cui sussistono determinate condizioni, quali le conseguenze negative tipiche dei costi di defezione e specifici vincoli di scelta morale e comportamentale [4]. Da questo punto di vista,
«credenze religiose, riti, e altri indicatori, con il loro tipico riferimento alla discendenza, all’ascendenza e alle tradizioni collettive, possono essere comprese come varianti dei segnali per il riconoscimento parentale [kin recognition] allo scopo di affermare i vincoli di affinità e la fiducia reciproca» [5].
Seguendo Lee A. Kirkpatrick (il quale a sua volta riprendeva alcuni studi psicologici), Paden avanza l’ipotesi che i complessi religiosi possano essere ascritti a un «processo ipertrofico di riconoscimento parentale» (hypertrophied kin recognition process), dove il legame tra i vari punti del network sociale esteso che lega i cooperatori sociali sarebbe costituito da dèi e antenati nella misura in cui questi ultimi rappresentano la categoria di «patroni o guardiani» [6]. Tali “guardiani”, quindi, «attivano i meccanismi parentali e motivano il comportamento altruistico reciproco»; di conseguenza, meccanismi quali la difesa del gruppo sociale da minacce interne o esterne (reali o virtuali) o persino il martirio diventano «strategie omeostatiche per la sopravvivenza del gruppo» [7]. Gli dèi, oltre ad essere «rappresentazioni intellettuali di informazioni causali o sociali», diventano quindi anche «oggetti interattivi di status sociale che innescano l’esibizione di comportamenti deferenti in relazione alla costruzione di una relazione conciliatoria e per evitare punizioni, sfortuna o vergogna» [8].

Scendendo ancora di più nello specifico, la sostanziale uguaglianza tra i comportamenti di sottomissione nei nostri parenti filogenetici più vicini e gli atti di venerazione e/o sottomissione religiosa erano già stati notati da Walter Burkert nel suo Tracce del sacro, il quale aggiungeva che
«i rituali di sottomissione, tanto importanti nelle attività religiose, sono o erano forme comuni di comportamento in altri contesti non sono di per sé specificamente religiosi. […] Non limitati a una particolare civiltà, questi rituali si trovano in tutto il mondo, e parecchi di essi sono dimostrabilmente preumani» [9].
Rituali di conferma gerarchica tra scimpanzé maschi.
L'individuo a sinistra, con una pietra nella mano destra, è dominante.
A sinistra il rivale, piegato e in atteggiamento deferente.
Fonte: de Waal, F. (2013). The Bonobo and the Atheist: In Search of Humanism Among the Primates. New York: Norton & Co. p. 155. © degli aventi diritto.
In seconda battuta, per gli appartenenti al network relazionale esteso, l’adesione ai principi religiosi diventa una segnalazione costosa che sottolinea l’impegno personale nei confronti di credenze e rituali socialmente condivisi. L’alto costo in termini di investimento di tempo, di impegno, di lavoro, di sforzo cognitivo, eccetera, tende inoltre a funzionare come deterrente per eventuali scrocconi e perditempo che usufruiscono dei benefici sociali derivanti dall’appartenenza al gruppo senza farsi carico dei costi individuali [10]. In pratica, è come se ti dicessero: ok, appartieni davvero al gruppo se dai prova di impegnarti in questa serie di comportamenti faticosi e se dimostri di condividere queste idee potenzialmente onerose. Patti chiari, amicizia lunga, come si suol dire.

Controllo, reciprocità e punizione: digressione evoluzionistica


Il modello socio-religioso umano combinerebbe allora cooperazione e moralità già presenti nei nostri parenti filogenetici più vicini (ma anche altrove nel mondo animale) in un modo reso possibile dall’exaptation di determinate caratteristiche, ossia utilizzando caratteri evolutisi nel passato profondo per determinate cause (oppure originatisi senza apparente utilità adattativa in quanto risultato di particolari vincoli storici) reindirizzandone l’uso verso nuovi scopi. L’altruismo reciproco in questo quadro occupa un ruolo fondamentale. Rispetto all’altruismo genetico, questo modello si dimostra molto più permeabile ai rischi rappresentati dai cosiddetti free-rider, ossia «imbroglioni che violano o contraccambiano con atti di minore valore i comportamenti altruistici di cui sono stati beneficiari» (insomma, gli scrocconi del paragrafo precedente) [11]. Esso implica la capacità di ricordare l’autore del gesto altruistico e la capacità di contraccambiare secondo il valore del gesto. In un’ottica simile, dunque,
«la cooperazione e l’altruismo puro nella specie umana potrebbero aver dunque trovato nella storia naturale precursori in caratteristiche come la lettura della mente altrui [ovvero la theory of mind, o ToM, della quale ci siamo occupati qui e qui], il rifiuto della sofferenza palese e la reciprocità sociale, emerse da processi di selezione di gruppo e di parentela in popolazioni suddivise in gruppi (localisticamente altruistici). Questi vincoli potrebbero poi essere stati trattenuti in varie specie di ominini come meccanismi anti-predazione, in tribù di bipedi raccoglitori e cacciatori opportunisti ancora soggette a intensa predazione, con una forte selezione sociale contro i free-rider» [12].
Ecco che allora il processo ipertrofico di riconoscimento parentale, con i fedeli che adottano trame familiari fittizie chiamandosi per esempio “fratello” e “sorella” ed evocando ascendenze comuni (le divinità come padri o madri), potenzia a livello culturale i legami interpersonali cercando di arginare questi scottanti problemi sociali. In pratica, è come se la cultura sfruttasse i sottostanti meccanismi neuroendocrinologici per ricreare i legami biologici in un contesto allargato. La selezione parentale (kin selection) combina la spiegazione del vantaggio individuale (ovvero la fitness) con i fenomeni di altruismo e cooperazione: dato che un individuo non può trasmettere tutti i propri geni, poiché nella riproduzione sessuata i geni trasmessi sono per metà paterni e per metà materni, si è osservato che la cooperazione e l’altruismo sono (solitamente) più forti presso i parenti prossimi [13].
Se tutti tuoi correligionari sono uniti da un’ascendenza fittizia, se vi chiamate tradi voi fratello e sorella, se i vostri testi sacri o le credenze non scritte predicano i legami ininterrotti che vi legano ad una catena relazionale costruita su basi parentali, se vi riferite alla vostra divinità, o alle vostre divinità, come ad un padre o una madre, se tracciate le vostre radici comuni fino ad Adamo ed Eva, Deucalione e Pirra, o ad altre coppie di esseri umani quali che siano, ecco che state attivando un discorso neuroendocrinologico basato sul riconoscimento parentale allo scopo di instaurare una rete allargata di relazioni altruiste ed inclusive (nel vostro gruppo) e competitive ed esclusive (rispetto ai gruppi esterni o agli indesiderati membri interni).

Conclusione: Il fenotipo esteso della religione


Eravamo partiti con un libro di Dawkins, e al termine di questa serie di post torniamo a un altro volume di Dawkins, il ben più solido ma meno celebrato Fenotipo esteso [14]. Proviamo a scomporre un momento il titolo del libro di Dawkins. Per fenotipo si intende l’espressione di un genotipo, ossia «tutte le proprietà osservabili, strutturali o funzionali, di un organismo» [15], mentre il genotipo è l’insieme dei geni che compongono il codice genetico di un essere vivente. Per estensione del fenotipo si intende il processo di modificazione dell’ambiente da parte dell’organismo e che avviene pertanto all’esterno dell’organismo stesso. Questo insieme di interventi mirati a modificare l’ambiente che un organismo effettua per contribuire alla sopravvivenza dei suoi alleli, e che quindi vanno potenzialmente a beneficio della sua fitness (misurata sulla base della trasmissione dei propri geni alle generazioni future), viene compreso all’interno dei comportamenti potenzialmente adattativi come estensione parallela a quello che i geni fanno all’interno dell’organismo, inteso da Dawkins come veicolo o vettore per la loro replicazione. Ecco che, allora, i pergolati costruiti con sagacia architettonica dagli uccelli giardinieri allo scopo di attirare potenziali partner, e che abbiamo incontrato nel primo post di questa serie, sono un esempio perfetto di fenotipo esteso. Altri esempi classici possono essere le dighe dei castori, i termitai e le tele dei ragni.

Gli uccelli giardinieri ve li avevo già mostrati in abbondanza.
E allora questa volta scelgo un Castor canadensis con la sua diga fenotipica
Probabilmente è in preda al panico perché ha visto arrivare quei pazzi scriteriati dei suoi nipotini.
Qualcuno prenda i livelli di cortisolo al povero Papà castoro!
Fonte: Wikipedia (credit: M. Klapczynski).
Se siete stati attenti finora, avrete già capito dove voglio arrivare. Se sulla scorta di quanto ipotizzato da Benjamin Purzicky e Richard Sosis consideriamo come “fenotipo religioso” come il mix tra componenti cognitivi e comportamento rituale di H. sapiens, allora i contenuti degli aggregati religiosi specifici (ossia, il risultato di vari componenti come variante condivisa – e non solo le mere idiosincrasie individuali) costituirebbero il risultato variabile di un fenotipo religioso [16]. L’ambiente socio-ecologico e le pressioni esterne (ad es., le aspettative morali che modulano su base culturale le predisposizioni innate) contribuirebbero a conformare in modo abbastanza prevedibile i contenuti specifici, partecipando attivamente nel modellare la nicchia cognitiva del fenotipo religioso, e continuando a creare i presupposti per la sua stessa successiva riproduzione e riproducibilità (ricordate l’epigrafe del post? No? Andate a leggerla subito!).

In altre parole, gli elementi che hanno contribuito a modellare questo peculiare ambiente culturale fatto di immaginazione, di credenze e di riti, vengono riprodotti con maggiore o minore successo sulle base di vincoli contestuali o di contenuti innestati e fissati precedentemente. Nel farlo attraverso le generazioni, essi mutano più o meno impercettibilmente ma ineluttabilmente e continuamente, senza però poter mai tornare indietro: si tratta di quello che è stato definito come “ratchet effect”, ossia l’azione vincolante dell’ingranaggio a denti d’arresto noto come cricco o cricchetto, il quale impedisce di tornare al dente precedente, stadio o passaggio che sia.

Il segreto sta in quel piccolo braccio metallico a destra, capace di bloccare ad ogni scatto la ruota dentata a sinistra.
Didascalia dalla pagina di Wikipedia: "cricco con sistema di svincolo; ruota dentata (a), dente di tenuta (b)".
Fonte: Wikipedia (credit: immagine da una lezione su "Cultura e tecnologia" di Franz Reuleaux per il Niederösterreichischer Gwerbeverein di Vienna, tradotta dallo svedese e pubblicata nella rivista di ingegneria Teknisk Tidskrift,  4/5 (1885), p. 4 di 7).
La capacità di cooperare con individui estranei alla cerchia familiare ha preso piede gradualmente nel corso del tempo profondo ominine, sulla base di un effetto cricchetto che ha ancorato ogni volta un gradino di ampliamento sociale alla selezione co-evolutiva tra geni e cultura, fino a quando altri blocchi componenziali, come dei mattoncini Lego, sono stati man mano aggiunti. Tra questi vanno segnalati almeno «l’attaccamento emotivo ai gruppi delimitati simbolicamente» e «la prontezza nel punire gli altri per la trasgressione delle regole del gruppo» [17], elementi che interagiscono l’un l’altro e concorrono nel creare un determinato ecosistema culturale. Come ha sintetizzato Dawkins,
«c’è un’ecologia dei memi [ossia delle idee/delle rappresentazioni culturali], una foresta tropicale dei memi, un termitaio dei memi. I memi non si limitano a saltare, per imitazione, di mente in mente nella cultura umana: questa è solo la punta dell’iceberg. Fanno anche un’altra cosa: prosperano, si moltiplicano e competono all’interno di ciascun cranio» [18].
La cosa forse più interessante da notare a questo punto è che le nicchie culturali create da H. sapiens avrebbero modulato, e modulerebbero tuttora, le pressioni selettive che le generazioni successive hanno ricevuto, e riceveranno, in eredità [19]. Il fenotipo religioso non fa eccezione.

Cosa vuole dire tutto ciò? Vuol dire che natura e cultura si avvincevano e inseguono l’un l’altra senza soluzione di continuità. Vuol dire inoltre che una volta che un’innovazione culturale viene implementata per fronteggiare determinati problemi impliciti o espliciti (come la costruzione ultrasociale di una rete parentale fittizia con forti pressioni ed incentivi sociali alla riproduzione, per esempio), vengono poste le basi per nuovi problemi che prima non esistevano e che non erano nemmeno prevedibili: «modellando una nicchia, gli organismi introducono nuove pressioni selettive nella medesima misura in cui essi sono capaci di superare quelle precedenti» [20].
Cambiando gli ambienti naturali e sociali, cambiano a lungo termine le risposte cognitive e comportamentali, e ciò che era potenzialmente adattativo smette di esserlo. E allora, in una spirale di vorticosi inseguimenti culturali, le pressioni ambientali del mondo occidentale e/o postindustriale contemporaneo rendono potenzialmente disadattative le inclinazioni della maggior parte dei fenotipi religiosi. Allo stesso modo, l’elevato tasso di natalità delle società caratterizzate dalla presenza di specifici fenotipi religiosi può diventare disadattativa in un contesto di sovrappopolamento globale, di crisi ambientale e climatica e di incipiente scarsità di materie prime [21

 Il fiume Ourthe, in Belgio. Altro che diga dei castori!
Benvenuti nell'Antropocene. Plastica in quantità, per tutti, per sempre.
Fonte: Wikipedia (credit: Okki).
Anche se molto resta da indagare scientificamente per appurare e distinguere tra cause effettive e mere correlazioni, ancora una volta il messaggio più importante è che le condizioni storiografiche sono e restano un fattore indispensabile – se non la chiave necessaria – per comprendere l’interazione dei processi mentali e comportamentali di questo strano primate che, a partire dai suoi antenati nella Rift Valley nell’Africa orientale, ha colonizzato, e modificato radicalmente, tutti i continenti del pianeta Terra (sì, ci sono stazioni scientifiche in Antartide, anche se non sono abitate in pianta stabile. Ci sono anche chiese in Antartide, nel caso ve lo steste chiedendo). Capire i processi cognitivi significa poter comprendere le cause dei gravissimi dissesti ambientali e degli spinosi problemi sociali dell’Antropocene, l’unica epoca geologica del pianeta ad essere stata proposta per designare l’impatto geologico (molto spesso, ahimè, negativo) di un vertebrato sull’intero globo terracqueo [22].

[1] Hill, K., Walker, R., Bozicevic, M., Eder, J., Headland, T., Hewlett, B., Hurtado, A., Marlowe, F., Wiessner, P., & Wood, B. (2011). Co-Residence Patterns in Hunter-Gatherer Societies Show Unique Human Social Structure Science, 331 (6022), 1286-1289 DOI: 10.1126/science.1199071.

[2] Dunbar, R. (2013). The Origin of Religion as a Small-Scale Phenomenon. In Religion, Intolerance, and Conflict: A Scientific and Conceptual Investigation, edited by Clarke, S., Powell, R., & Savulescu, J. (eds.), pp. 48-66. Oxford and New York: Oxford University Press.

[3] Paden, W. E. (2008). Connecting with Evolutionary Models: New Patterns in Comparative Religion? In Introducing Religion: Essays in Honor of Jonathan Z. Smith, edited by Braun, W. & McCutcheon, R.T. (eds.), pp. 406-417. London and Oakville: Equinox Publishing. pp. 409-410.

[4] Ibi: 411.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem. Cfr. Kirkpatrick, L. A. (2005). Attachment, Evolution, and the Psychology of Religion. New York: Guilford. 

[7] Paden, Connecting with Evolutionary Models, cit., p. 411.

[8] Ibi: 412.

[9] Burkert, W. (2003). La creazione del sacro. Orme biologiche nell’esperienza religiosa. Milano: Adelphi. p. 116 (pubbl. orig. nel 1996 come Creation of the Sacred: Tracks of Biology in Early Religions. Cambridge, MA and London: Harvard University Press.

[10] Cfr. Martin, L.H. (2005). Religion and Cognition. In The Routledge Companion to the Study of Religion, edited by Hinnells, J. R., pp. 473-488: 483. Abingdon and New York: Routledge; Paden, Connecting with Evolutionary Models, cit., p. 414; Buss, D. M. (2012). Psicologia evoluzionistica. Milano e Torino: Pearson Italia, p. 207 (pubbl. origi. nel 2012 come 4a ed. di Evolutionary Psychology: The New Science of the Mind. Boston: Pearson).

[11] Vallortigara, G. (2008). Animato, troppo animato. In Girotto, V., Pievani, T. & Vallortigara, G. Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, pp. 83-112:110. Torino: Codice edizioni pp. 83-112.

[12] Pievani, T. (2012). L’evoluzione della morale. Ne Le Scienze. Edizione italiana di “Scientific American”, 526, giugno, pp. 64-71: 70.

[13] Cfr. Luria, S. E., Gould, S.J., & Singer, S. (1984). Una visione delle vita. Introduzione alla biologia, p. 520. Bologna: Zanichelli (pubbl. orig. nel 1981 come A View of Life. Menlo Park, CA: Benjamin/Cummings Publishing Company).

[14] Dawkins, R. (1987). Il fenotipo esteso. Il gene come unità di selezione. Bologna: Zanichelli (pubbl. orig. nel 1982 come The Extended Phenotype: The Gene as the Unit of Selection. New York: W.W. Norton & Co).

[15] Sella, G. (2004). s.v. “Genotipo e fenotipo”. In Dizionario di biologia, Fasolo, Aldo (a cura di), pp. 476-479: 476. Torino: UTET.

[16] Purzycki, B., & Sosis, R. (2013). The extended religious phenotype and the adaptive coupling of ritual and belief Israel Journal of Ecology & Evolution, 59 (2), 99-108 DOI: 10.1080/15659801.2013.825433.

[17] Richerson, P.J. & Boyd, R. (2005). The Origin and Evolution of Cultures. Oxford and New York: Oxford University Press. pp. 263-264.

[18] Dawkins, R. (2002). L’arcobaleno della vita. La scienza di fronte alla bellezza dell’universo. Milano: Mondadori. p. 276. (1a ed. 2001; pubbl. orig. nel 1998 come Unweaving the Rainbow: Science, Delusion and the Appetite for Wonder. Boston: Houghton Mifflin).

[19] Smail, D.L. (2008). On Deep History and the Brain. Berkeley, Los Angeles and London: University of California Press. pp. 102-104.

[20] Purzycki & Sosis, The extended religious phenotype, cit., p. 104.

[21] Cfr. però Richerson, P. J. & Boyd, R. (2006). Non di soli geni. Come la cultura ha trasformato l’evoluzione umana. Torino: Codice edizioni, pp. 236-244 (pubbl. orig. nel 2005 come Not by Genes Alone: How Culture Transformed Human Evolution. Chicago and London: The University of Chicago Press). Si veda anche Slone, D.J. & Van Slyke, J.A. (eds.) (2015). The Attraction of Religion: A New Evolutionary Psychology of Religion. London and New York: Bloomsbury.

[22] Waters, C., Zalasiewicz, J., Summerhayes, C., Barnosky, A., Poirier, C., Ga uszka, A., Cearreta, A., Edgeworth, M., Ellis, E., Ellis, M., Jeandel, C., Leinfelder, R., McNeill, J., Richter, D., Steffen, W., Syvitski, J., Vidas, D., Wagreich, M., Williams, M., Zhisheng, A., Grinevald, J., Odada, E., Oreskes, N., & Wolfe, A. (2016). The Anthropocene is functionally and stratigraphically distinct from the Holocene Science, 351 (6269) DOI: 10.1126/science.aad2622.

mercoledì 1 giugno 2016

Società e sessualità tra norma e natura. Una digressione antropologica e primatologica

Prima di andare avanti nella nostra breve carrellata di ipotesi sugli inizi della religione, dobbiamo fare piazza pulita della solita e trita solfa condita da ideologie striscianti che mettono in pausa il cervello e pensano per noi. Come fare per tornare sul più solido terreno della ricerca scientifica? Beh, se siete qui su Tempi profondi, suggerirei di ancorare la nostra discussione ai tempi profondi della storia! E quale modo migliore per farlo se non quello di rivolgerci all’antropologia e alla primatologia? Due discipline che, come vedremo tra poco, sono e restano inestricabilmente unite – nonostante i molti e spuri tentativi di segregazione disciplinare in chiave antiscientifica. In particolare, ciò che ci interessa in questa sede è indagare, senza alcuna pretesa di esaustività, l’organizzazione sociale di Homo sapiens, per poter poi vedere – nel prossimo post – in quale modo le credenze possano aver agito sulla base di tratti universali comportamentali.

I tempi profondi dell’antropologia

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Il primatologo Bernard Chapais ha decostruito la configurazione antropologica dell’esogamia (ossia la scelta del partner al di fuori del proprio gruppo familiare/locale) in dodici blocchi, ognuno dei quali andrebbe inserito in un passaggio contingente e culturale della storia del nostro clade (uomo compreso; un clade è un gruppo di organismi aventi un antenato comune), e ha concluso che sembra esservi una tendenza nel comune antenato ominine verso la discendenza agnatizia (cioè, dal padre ai figli di sesso maschile) [1].

Il ramo evolutivo della superfamiglia Hominoidea.
In giallo è sottolineata la sottofamiglia Homininae, della quale fanno parte i generi Homo, Pan (scimpanzé e bonobo) e Gorilla.
Immagine: Wikipedia (credit: EOD)
Più recentemente, uno studio condotto da Kim Hill e dai suoi collaboratori, paragonando i modelli di parentela e di residenza di cinquemila membri appartenenti a trentadue società di cacciatori-raccoglitori di oggi ai sistemi di parentela e di dispersione sessuale dei primati, è giunto ad identificare gli elementi culturali e sessuali comuni e basilari della società di H. sapiens. Questi sarebbero la filopatria (ossia il fatto di risiedere stabilmente ad un determinato luogo) e la dispersione bisessuale (ossia, il fatto che a lasciare il gruppo di appartenenza siano entrambi i sessi), due caratteristiche ritenute «tipiche» e derivanti dalla «frequente co-residenza del complesso formato da fratello-sorella adulti» [2]. «Tale pattern sociale», affermano gli autori nelle conclusioni del loro lavoro, «non è registrato per nessun primate o vertebrato, per quanto ne sappiamo. Ipotizziamo che il legame monogamo di coppia, il riconoscimento paterno all’interno di unità cooperative per l’allevamento sociale e la dispersione bisessuale abbiano facilitato sia relazioni frequenti e amichevoli tra i gruppi, sia la migrazione e la bassa vicinanza genetica dei co-residenti del gruppo» [3].

Certo, possiamo discutere sul fatto che spalmare sull’asse cronologico una serie di comparazioni sincroniche contemporanee basate su un gruppo di studio selezionato e assai ristretto equivalga semplicemente a rafforzare un bias di conferma. Per questo occorre allargare il quadro d’indagine e guardare ai nostri parenti filogenetici più prossimi. Chapais, sintetizzando i risultati dello studio di Kim e colleghi, ha sottolineato che a monte della variazione culturale di H. sapiens, rispetto alle formule dei nostri parenti filogenetici, sarebbe da porre l’evento chiave costituito dall’istituzionalizzazione delle relazioni di coppia.

Ora, il modello di accoppiamento promiscuo negli scimpanzé rende difficile per i maschi riconoscere con precisione la parentela maschile – al di là del fatto di essere tutti imparentati. La struttura genealogica, secondo Chapais, è dunque «socialmente silenziosa» [4] . Inoltre i maschi sono portati all’aggressione nei confronti degli estranei/stranieri. Seguendo questa linea di pensiero, con l’istituzionalizzazione del legame di coppia in Homo l’incontro dei gruppi non sarebbe più necessariamente sfociato in conflitti, in quanto il legame e il riconoscimento tra genitori e progenie (o tra padre e figlia, nel caso fosse il sesso femminile ad essere oggetto di dispersione sociale, come negli scimpanzé) avrebbero alleviato le tensioni tra gruppi estranei, così come il riconoscimento del compagno della figlia avrebbe portato a tollerare gli altri individui maschili. Secondo questo modello ipotetico,
«le prime entità collettive a essersi evolute successivamente alla promiscuità sessuale furono contraddistinte dal legame di coppia all’interno dei gruppi misti di ominini che mostravano residenza maschile e trasferimento delle femmine, un pattern che si ritiene omologo (ossia simile per discendenza comune) negli umani e negli scimpanzé» [5].
Successivamente si dovette assistere all’implementazione di alleanze tra gruppi basate sui legami matrimoniali – e quindi anche sullo scambio degli individui di sesso femminile. Paradossalmente, nota Chapais, tale modello portò ad un aumento di relazioni con individui imparentati alla lontana, oppure non imparentati – e quindi all’aumento di situazioni potenzialmente stressanti [6]. Avremo modo di tornare su questo interessante aspetto ambivalente nel prossimo post.
Il "la" all'organizzazione sociale umana, secondo Chapais: l'istituzionalizzazione del legame di coppia in un contesto esogamico. Nell'illustrazione qui sopra, il legame di coppia è indicato dal braccio in rosa, che unisce una figlia del gruppo di sinistra con un figlio del gruppo di destra, implementando nel contempo il riconoscimento tra suoceri appartenenti a gruppi differenti - ora (potenzialmente) alleati. Romeo e Giulietta possono aspettare.
Fonte: Chapais 2011: 1276.
Alle origini della monogamia

Un altro tassello della complessa storia profonda dell’organizzazione parentale e comunitaria umana è legato all’istituzione della monogamia sociale, che di fatto risulta essere più comune tra gli uccelli (90%) che nei mammiferi (3%). Il fatto forse più interessante è che nei primati la monogamia si è evoluta indipendentemente in tutti i cladi principali dove le condizioni ecologiche lo hanno permesso. Al contrario, se sussistono alti tassi di predazione in specifiche condizioni ecologiche, la pressione per mantenere coesi i gruppi sociali rende la monogamia una strategia non efficace; tale è la situazione per i gorilla e gli entelli (gen. Semnopithecus).

Tutti conoscono i gorilla, ma gli entelli? Eccone uno.
Immagine: Wikipedia (credit: Markus334).
Dato un contesto ecologico adeguato, le ipotesi messe in campo per spiegare l’evoluzione della monogamia sociale sono state:
  • cura (bi)parentale;
  • controllo del/della compagno/a onde evitare l’accoppiamento con terzi;
  • evitare il rischio dell’infanticidio: se la lattazione è più lunga del periodo di gestazione, uccidere i figli di un altro maschio può causare endocrinologicamente (ossia, per motivi ormonali) il ritorno dell’estro nella femmina e rendere pertanto questa pratica una strategia effettiva per promuovere i propri geni a scapito degli altri maschi.
I risultati delle ricerche condotte da un team guidato da Christopher Opie, e che comprendeva Robin Dunbar, Quentin Atkinson e Susanne Schultz, hanno dimostrato che tra questi tratti è l’ultimo quello potenzialmente più rilevante nel quadro dell’implementazione della monogamia [7]. Difatti, in presenza di uno schema di monogamia seriale, il tasso di infanticidio maschile è più basso. Sintetizzando, la presenza di un lungo periodo di allattamento e allevamento dei piccoli, con una lunga fase di apprendimento e dipendenza, comporta un alto rischio di infanticidio; la monogamia sociale associata alla cura biparentale permetterebbe pertanto di limitare e contrastare l’infanticidio maschile attraverso la riduzione del periodo di allattamento rispetto al periodo di gestazione. Negli scimpanzé, ad esempio, la gestione del rischio di infanticidio connesso ai vincoli temporali dell’allevamento dei piccoli avviene grazie a un sistema di poliginandria per cui «i maschi difendono le femmine e i piccoli all’interno del loro territorio, e le femmine garantiscono la confusione sulla paternità attraverso accoppiamenti multipli con la comunità di maschi» [8]. Ci troviamo pertanto di fronte ad una complessa dialettica tra violenza e sessualità come mezzi competitivi e cooperativi di gestione intersessuale delle società ominine nel corso della storia profonda.

Contro natura? Sesso e potere in Homo sapiens

C’è però un’aggiunta necessaria da fare – ed è il nesso tra sesso e potere negli esseri umani, che rispetto agli altri primati rievoca constantemente un discorso pregno di una lunga e istituzionalizzata storia culturale. Siamo o non siamo diversi? Più che lecito allora chiedersi quanto questo complesso bagaglio culturale renda H. sapiens un’eccezione – oppure, riformulando i termini del confronto, una semplice variante. Secondo il paleontologo Niles Eldredge, lo sganciamento dell’attività sessuale dalla riproduzione sarebbe una prerogativa esclusiva di H. sapiens e l’attività sessuale andrebbe meglio compresa come un triangolo (il «triangolo dell’uomo») [9] al cui apice sta la sessualità vera e propria, mentre ai due restanti vertici si pongono economia (nel senso di gestione delle risorse) e riproduzione [10]. Questa posizione può ben rappresentare il punto di incontro tra la biologia e lo studio della società tipico degli studi poststrutturalisti (Bourdieu e Foucault in primis) ma è incompleto – e forse anche un po’ manicheo.
Il "triangolo dell'uomo" secondo Niles Eldredge.
Siamo davvero sicuri che negli  animali non-umani non sia così?
Fonte: Eldredge 2005: 137.
Perché non è vero che siamo così diversi. Basta dare un’occhiata ad un testo come Biological Exuberance: Animal Homosexuality and Natural Diversity di Bruce Bagemihl (primo di una lunga serie di approfondite indagini sulla sessualità e l’omosessualità in natura) [11] per dimostrare agli scettici che in natura non esiste alcuna norma vincolante che leghi sessualità a riproduzione e allevamento della prole; anzi, tutt’altro [12]. I trecento casi circa di attività sessuale slegata dalla riproduzione descritti da Bagemihl, che comprendono attività omosessuali, transessuali, eterosessuali, masturbatorie e quant’altro, documentati in mammiferi e uccelli (con un’appendice su anfibi, rettili, animali domestici, ecc.), e dove il triangolo di Eldredge è spesso una costante universale, rappresentano un buon incipit per cominciare a cambiare idea anche sulla storia profonda di H. sapiens e ripensare le categorie poststrutturaliste e antropocentriche del rapporto tra sesso e potere (ad esempio scambi di cibo, richieste di cooperazione, ecc.). Allora, una volta di più occorre ricordare il monito secondo cui gli animali indulgono in attività che non hanno benefici diretti se non quello – tautologico – di indulgere in quelle stesse attività: nemmeno in questo caso c’è completa discontinuità tra H. sapiens e i suoi parenti filogenetici, per quanto vicini o lontani possano essere [13].

No, le illustrazioni non ve le posto qui. Siamo in fascia protetta ;-).
Fonte: Bagemihl 1999: 263.
“Norme”, al plurale

Per ritornare allo studio di Hill e colleghi citato all’inizio del post, e seguendo una traccia fornita dallo storico Daniel Lord Smail, le categorie analitiche ottenute dalle comparazioni etnografiche sono oggi spesso condotte (purtroppo non sempre) sotto la guida di modelli che hanno fatto tesoro dei molteplici errori impliciti ed ideologici della comparativistica etnografica, antropologica e storico-religiosa del passato recente. Le nuove analisi possono rivelare interessanti pattern o tendenze di lungo corso, tenendo sempre presente che le caratteristiche familiari e sociali di base che contraddistinguono H. sapiens sono comunque malleabili e flessibili, che non esiste un modello normativo culturale “normale”, e che di fatto si può parlare di possibilità poste in essere dall’interazione di molteplici fattori contingenti. Ad esempio, si può certamente parlare di una sorta di vincolo tendente verso l'organizzazione monogama, ma occorre considerare altresì la «tendenza verso i legami di coppia mitigati, in una misura più o meno grande, da pattern di infedeltà sistematica» che caratterizzano anche i tanto sbandierati rapporti monogami di certe specie di uccelli ritenute fedelissime [14]. E tanto più dovremmo comprendere che, così come la riproduzione è di fatto slegata dalla sessualità negli animali e nell’uomo, così non esiste un modello di base “normale” o, peggio ancora, una Urkultur, né nelle società naturali dei nostri parenti più vicini, né nelle società umane:
«persino tra i babbuini non c’è un pattern sociale “normale”: ora sappiamo che le società dei babbuini variano sottilmente da località a località: qui un tipo di matrilocalismo creato da coalizioni femminili, là pattern di dominanza maschile [...]. Tra gli esseri umani, ogni società è allo stesso modo plasmata dalle circostanze ambientali e da particolari pattern culturali» [15].
Lo studio storiografico permette di collocare tutte queste tendenze allinterno di precise coordinate geo-temporali. E questo è importante perché, grazie al nostro macchinario cognitivo, possiamo immaginare molte più soluzioni (e problemi) di quelle che poi possono essere effettivamente realizzati. Pertanto, studiare lattualizzazione effettiva e limplementazione sociale dei vari sistemi sociali dal punto di vista storiografico può contribuire a scrollare di dosso dagli studi comparativi interdisciplinari quella patina di aleatorietà temporale che talvolta, nonostante tutti gli sforzi, rimane.

Nel prossimo post vedremo quali tra quei «particolari pattern culturali» ricordati da Smail sono stati decisivi per creare le enormi società fatte di potenziali sconosciuti pronti a cooperare e tipiche di una buona parte della storia del peculiare animale Homo sapiens.

L'unica "Norma" della quale potete sempre fidarvi.
Immagine: pasta alla Norma, Wikipedia (credit: Paoletta S.)

[1] Chapais, B. (2008). Primeval Kinship: How Pair-Bonding Gave Birth to Human Society. Cambridge, MA: Harvard University Press, pp. 127-130. Vedasi inoltre Trautmann, T.R., Feeley-Harnik, G., & Mitani, J.C. (2011). Deep Kinship. In Shryock, Andrew e Daniel Lord Smail (eds.), Deep History: The Architecture of Past and Present. Berkeley, Los Angeles and London: University of California Press, pp. 160-188: 172-173, cui si rimanda anche per i legami di tali contestualizzazioni primatologiche con le classiche teorie antropologiche (in part. con Lévi-Strauss). Questi i dodici passaggi (ripresi da Chapais 2008): composizione mista del gruppo [presenza di molti maschi, femmine e prole]; esogamia legata alle parentele di gruppo; discendenza uterina (matrilineare); tabù dell’incesto; legami stabili di allevamento della prole; parentela agnatizia (patrilineare); affinità bilaterale [per cui un individuo è nello stesso tempo affiliato sia alla parte materna sia alla parte paterna]; tribù [il network sociale allargato]; pattern di residenza postmatrimoniale; complesso fratello-sorella [legato alla regolamentazione dei rapporti con/tra zii e cugini]; discendenza; scambio matrimoniale.

[2] Hill, K., Walker, R., Bozicevic, M., Eder, J., Headland, T., Hewlett, B., Hurtado, A., Marlowe, F., Wiessner, P., & Wood, B. (2011). Co-Residence Patterns in Hunter-Gatherer Societies Show Unique Human Social Structure Science, 331 (6022), 1286-1289 DOI: 10.1126/science.1199071. In part. p. 1288.

[3] Ibidem.

[4] Chapais, B. (2011). The Deep Social Structure of Humankind Science, 331 (6022), 1276-1277 DOI: 10.1126/science.1203281

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Opie, C., Atkinson, Q., Dunbar, R., & Shultz, S. (2013). Male infanticide leads to social monogamy in primates Proceedings of the National Academy of Sciences, 110 (33), 13328-13332 DOI: 10.1073/pnas.1307903110.

[8] Ibidem. Per una panoramica teorica più estesa sull’evoluzione della monogamia nei mammiferi si rimanda a Lukas, D., & Clutton-Brock, T. (2013). The Evolution of Social Monogamy in Mammals Science, 341 (6145), 526-530 DOI: 10.1126/science.1238677, ove invece si sostiene che questa sia una strategia di accoppiamento che dipende dalla bassa densità di femmine, dall’intolleranza territoriale nei confronti di altre femmine, e dall’incapacità dei maschi di controllare l’accesso a più femmine.

[9] Eldredge, N. (2005). Perché lo facciamo. Il gene egoista e il sesso. Torino: Einaudi, pp. 136-137. Pubblicato originariamente nel 2004 come Why We Do It: Rethinking Sex and the Selfish Gene. New York: W.W. Norton.

[10] Cfr. ibi: 136-137, 261.

[11] Cfr. Poiani, A. (2010). Animal Homosexuality: A Biosocial Perspective. Cambridge University Press: Cambridge and New York; Sommer, V. & Vasey, P.L. (eds.) (2011). Homosexual Behaviour in Animals: An Evolutionary Perspective. Cambridge and New York: Cambridge University Press.

[12] Bagemihl, B. (1999). Biological Exuberance: Animal Homosexuality and Natural Diversity. New York: St. Martin’s Press. Per alcuni doverosi ammonimenti riguardo le (non sempre identiche) cause prossime, i momenti dello sviluppo individuale, la funzione e la storia evolutiva che soggiacciono al comportamento omosessuale negli animali, e in particolare nei primati, cfr. Laland, K. N. & Brown, G.B. (2011). Sense & Nonsense: Evolutionary Perspectives on Human Behaviour. Second Edition, Oxford and New York: Oxford University Press, pp. 7-8 (1a ed. 2002).

[13] Balcombe, Jonathan Peter. 2011. The Exultant Ark: A Pictorial Tour of Animal Pleasure. Berkeley, Los Angeles & London: University of California Press

[14] Smail, D. L. (2008). On Deep History and the Brain. Berkeley, Los Angeles and London: University of California Press, p. 197.

[15] Ibi: 196. Cfr. Eldredge 2005: 160.

sabato 28 maggio 2016

Potenziatori culturali, uccelli giardinieri e sense of beauty. Ipotesi sugli inizi della religione a quarant'anni da Il gene egoista

Copertina dell'edizione italiana del libro di Richard Dawkins intitolato Il gene egoista.
ResearchBlogging.org
Per il quarantennale della pubblicazione de Il gene egoista di Richard Dawkins, ho deciso di omaggiare l’idea di evoluzione culturale attraverso i memi in questo e nel prossimo post [1]. Tenuti a battesimo proprio in quel volume, i memi sono elementi culturali sottoposti a immagazzinamento mnemonico e diffusione attraverso modalità imitative. Nei modelli tratti della memetica dawkinsiana i “memi” vengono intesi come «atomi discreti di informazione ereditaria in competizione tra loro», sulla base di un parallelo tra cambiamento genetico e modifiche culturali nel corso del tempo [2]. Come ha scritto Luigi Luca Cavalli Sforza, da questa prospettiva l’«autoriproduzione delle idee» è resa possibile dal fatto che «le idee […] sono oggetti materiali in quanto hanno bisogno di corpi e cervelli in cui essere prodotte per la prima volta e riprodotte nel processo di trasmissione: come il DNA sono materiali, anche se di natura diversa» [3]. Nonostante l'idea di partenza non fosse originale, in quanto influenzata in origine dalle tesi che furono già di Cavalli Sforza (tra gli altri), la portata e l'appeal della proposta dawkinsiana fu semplicemente enorme [4]. Bene o male, il merito di Dawkins sta nell'aver confezionato e semplificato un potenziale modello di ricerca per renderlo fruibile a livello divulgativo. Coniando un'etichetta di grande successo.

Il battesimo dei memi.
Fonte: Dawkins, Richard. 2010. Il gene egoista. Milano: Mondadori. p. 201.
In questo e nel prossimo post, senza alcuna velleità o pretesa di esaustività, riprendo alcune interessanti pubblicazioni recenti di cui mi sono occupato nella mia tesi di dottorato e nel mio librone, tagliando, aggiornando e correggendo dove necessario. Il punto di partenza e il pretesto provengono dall’idea che tratti culturali socialmente accettati e ampiamente diffusi, come i comportamenti religiosi, siano giocoforza e in qualche modo adattativi. Iniziamo allora in medias res con un bel libro pubblicato nel 2012, scritto dal biologo evoluzionista Mark Pagel e intitolato Wired for Culture: The Natural History of Human Cooperation.
In questo libro, Pagel ritiene che all’interno dei meccanismi di co-evoluzione culturale, elementi quali religione, arte e musica abbiano agito come potenziatori culturali (cultural enhancers), volti a massimizzare il successo dei replicatori (gli esseri umani) all’interno dei veicoli di sopravvivenza culturali. Però, secondo l’interessante (e talvolta problematica) prospettiva memetica sposata da Pagel, la religione o, meglio, i vari componenti di una religione possono essere adattativamente neutrali o persino essere deleteri per i singoli o per i gruppi, indipendentemente dalla diffusione di quel potenziatore culturale:
«la proposta secondo la quale abbiamo curato le arti e la religione poiché ci sono utili deve essere confrontata con la più semplice idea che questi elementi culturali possano esistere per nessun’altra ragione al di fuori del fatto che si sono evoluti per essere capaci di manipolare, sfruttare o approfittarsi di noi al fine di diffondersi – non per aiutarci» [5].
Il concetto di potenziatore culturale non è molto lontano dall’ipotesi di Luther H. Martin per cui la religione avrebbe funzionato agli inizi come elemento di selezione sessuale, come dispiego e sfoggio di caratteristiche individuali valide per indicare la propria fitness, sulla scorta del darwiniano sense of beauty, ossia dell’estetica e delle relative capacità valutative esibite da un sesso per giudicare la fitness dell'altro. Nel suo contributo Martin descrive i meccanismi cognitivi, le strabilianti abilità architettoniche e l’esistenza di tratti culturali condivisi a livello regionale dagli uccelli giardinieri dell'Australia e Nuova Guinea (fam. Ptilonorhynchidae) per paragonarli allo storytelling umano e alla narrazione affabulatoria come display orale nella selezione sessuale umana.

«Proprio in prossimità del sentiero, mi trovai in presenza dell'opera più bella che ingegno di animale abbia mai saputo costruire. Era una capanna in mezzo a un praticello smaltato di fiori. Il tutto in miniatura. [...] Mi contentai di esaminare superficialmente per il momento quella meraviglia e proibii severamente a' miei cacciatori di scomporla». Da Beccari, Odoardo. 1877. Le capanne ed i giardini dell'Amblyornis inornata. Genova: Annali del Museo Civico di Storia Naturale di Genova, vol. IX; testo e immagine riprese da Mazzotti, Stefano. 2011. Esploratori perduti. Storie dimenticate di naturalisti italiani di fine Ottocento. Torino: Codice, risp. pp. 114 e 216. Immagine resa disponibile dall'editore qui.



Martin si basa su quanto concluso da Geoffrey Miller nel suo Uomini, donne e code di pavone: la selezione sessuale e l’evoluzione della natura, secondo cui la capacità di cooptare controintuitivamente determinati concetti all’interno delle narrazioni religiose può avere avuto effetti sulla fitness riproduttiva degli individui [6]. Secondo la prospettiva cognitiva milleriana, «molti degli adattamenti mentali che guidano i nostri comportamenti [sono] intuitivamente accurati». Però, come l'autore suggerisce, «i “fuochi d’artificio mentali che costellano lo spettacolo del corteggiamento” indeboliscono la nostra epistemologia evoluzionistica, “trasformando le nostre facoltà cognitive da seguaci della verità in pubblicità ornamentali per la propria fitness”» [7].
Per un esempio di pubblicità ornamentale come sviluppo esagerato di tratti potenzialmente inutili o addirittura nocivi alla sopravvivenza degli individui si pensi alle melodie degli uccelli canori che ne segnalano la presenza ai potenziali predatori. Ma, come la coda del pavone, si tratta di uno sfoggio di qualità che esagera la fitness dell'individuo sia per scoraggiare eventuali predatori (indicandone la salute e la prestanza) sia per incoraggiare eventuali compagne (idem). D'altra parte Mick Jagger, con il suo repertorio di abilità artistiche immortalate nel testo e nel videoclip di una canzone recente, ha avuto sette figli da quattro compagne – e non stiamo nemmeno a fare la conta delle possibili partner a livello non ufficiale.
«Gli inglesi le hanno chiamate playbing o sporting places, halls, play houses, ma più specialmente Bowers, nome che io tradurrei in italiano in quello di pergolati, gallerie o capanne; Bower birds sono chiamati gli uccelli che costruiscono».
Testo: Beccari, Le capanne ed i giardini dell'Amblyornis inornata, cit.; ripreso da Mazzotti, Esploratori perduti, cit., p. 114. Immagine: BBC Earth (Tim Laman / naturepl.com)
Ogni mezzo è lecito, dunque, e fare sfoggio di tratti esagerati diventa parte integrante di un processo a cascata (runaway effect) per cui domanda e offerta dei potenziali partner si rincorrono nel tempo profondo dell'evoluzione fino a fissare elementi potenzialmente nocivi alla fitness. In un apparentemente paradossale scarto di logica, la difficoltà di espletare funzioni normali e/o l'apprendimento di comportamenti costosi e inutili diventa essa stessa vincolo selettivo [8].

In questo senso, raccontare storie esagerate alimenta la diffusione di elementi narrativi che fanno presa cognitiva proprio a causa degli temi inaspettati che esse contengono. Non è difficile intravedere qui in filigrana l'innesco di narrazioni mitologiche vorticosamente controintuitive che diventano vincolo selettivo per nuove storie sempre più mirabolanti. D'altra parte, un'attenzione innata rivolta ai particolari contenuti che violano le nostre aspettative ontologiche nei confronti del mondo esterno è un fattore potenzialmente adattativo. Chiaramente, una storia fatta di dèi che lanciano fulmini quando sono arrabbiati non ha molto valore adattativo di per sé, ma sapere che i fulmini possono colpire gli alberi perché sacri a quella divinità – e quindi starsene ben lontani quando diluvia – non è poi tanto male. Senza contare l'effetto neuroendocrinologico di soddisfazione epistemica conseguente alla condivisione di una bella e piacevole storia. Chiaro, c'è dell'altro. Ma quello che voglio sottolineare qui è che allora lo storytelling mitologico sarebbe in nuce  una sorta di prodotto collaterale, un by-product, poi ripreso e sfruttato anche a fini adattativi [9].
Ma son tutte fole, direte voi. Eppure, dal fingere di credere al credere nella finzione il passo non è poi così incolmabile come si potrebbe pensare di primo acchito. Se si ha cura di collocarsi nella prospettiva dei tempi profondi, ovvio. In effetti, Robert Trivers ha suggerito che
«la logica dell’inganno pervade la storia della vita sulla Terra, dalla competizione all’interno dei genomi ai rapporti familiari e sociali, e che per rendere efficaci strategie di inganno e manipolazione degli altri si è evoluta a sua volta la capacità di autoingannarsi» [10].
Autoingannarsi come prerequisito per competere meglio, quindi? Questa tesi sollevi alcune interessanti e spinose questioni dal punto di vista cognitivo ed evoluzionistico (sulle quali non possiamo soffermarci in questo post), e permette di considerare in un’ottica di lungo periodo il rapporto tra competizione intra- ed inter-sessuale (ossia all'interno e tra i sessi) e uso del linguaggio.

Alcune ricerche di sociolinguistica riprese da Anne Campbell, ad esempio, hanno individuato una correlazione positiva tra questi due elementi negli adolescenti di sesso maschile del genere Homo sapiens, per i quali
«[...] il fattore importante non è il contenuto del discorso, quanto ciò che attraverso di esso si può raggiungere. Parlare equivale a reclamare, mantenere o contestare lo status sociale. Per i ragazzi mantenere l’attenzione di un pubblico è un vero talento perché, a differenza di quanto avviene con le ragazze, l’oratore non può contare su un pubblico paziente e comprensivo: “Narrare storie [storytelling], raccontare barzellette [joke telling] e altre perfomance narrative sono caratteristiche comuni dell’interazione sociale dei ragazzi… Il narratore deve affrontare di frequente la derisione, le sfide e i commenti sulla sua storia. Una delle maggiori abilità sociolinguistiche che un ragazzo deve apprendere per interagire con i suoi pari è superare questa serie di sfide, mantenere l’attenzione del pubblico e arrivare con successo alla fine della sua storia» [11].
La prossima volta che qualcuno tra i vostri amici e conoscenti si mette svergognatamente in mostra in pizzeria, raccontando storie assurde o barzellette penose pensando di essere divertente, attirando l'attenzione di tutti i commensali, non riuscirete a non pensare ad una coda di pavone. O a un pergolato degli uccelli giardinieri.
Metti un Amblyornis inornata in pizzeria... Illustrazione di John Gould.
FonteWikipedia

[continua...]

[1] Dawkins, R. (2010). Il gene egoista. Milano: Mondadori (1992 1a ed.). Ed. orig. The Selfish Gene, Oxford and New York: Oxford University Press, 1976; ristampato nel 1989 e  nel 2006).

[2] Pievani, Telmo. 2010. Introduzione alla filosofia della biologia. Roma-Bari: Laterza, p. 73 (2005 1a ed.). Si veda Dawkins, Il gene egoista, cit., pp. 198-210 (cap. Memi: i nuovi replicatori). Passaggio rielaborato da Ambasciano, L. (2014). Sciamanesimo senza sciamanesimo. Le radici intellettuali del modell osciamanico di Mircea Eliade tra evoluzionismo, psicoanalisi, te(le)ologia. Roma: Nuova cultura, p. 495.

[3] Cavalli Sforza, L.L. (2010). L’evoluzione della cultura. Torino: Codice edizioni, p. 131 (2004 1a ed.).

[4] Dawkins ricorda Cavalli Sforza (Il gene egoista, cit., 200), e due suoi testi: Cavalli Sforza, L.L. (1971). "Similarities and Dissimilarities of Sociocultural and Biological Evolution". In Mathematics in the Archaeological and Historical Sciences, edited by Hodson, F.R., Kendall, D.G., and Tăutu, P., 535-541. Edinburgh: Edinburgh University Press, e Cavalli Sforza, L.L. and Feldman, M.W. (1981). Cultural Transmission and Evolution: A Quantitative Approach. Princeton: Princeton University Press (cit. risp. in Dawkins, Il gene egoista, cit.,pp. 336 e 337).

[5] Pagel, M. (2013). Wired Culture: The Natural History of Human Cooperation, Penguin Books, London-New York: Penguin, p. 135 (pubbl. orig. da Allen Lane, London & New York 2012; W.W. Norton & Co., New York 2012).

[6] Miller, G. (2000). The Mating Mind: How Sexual Choice Shaped the Evolution of Human Nature. New York: Random House. Trad. in italiano nel 2002 come Uomini, donne e code di pavone: la selezione sessuale e l’evoluzione della natura. Torino: Einaudi. Si veda inoltre Bartalesi, Lorenzo (2012). Estetica evoluzionistica. Darwin e l'origine del senso estetico. Roma: Carocci.

[7] Martin, L.H. (2013). “The Origins of Religion, Cognition and Culture: The Bowerbird Syndrome”. In Origins of Religion, Cognition and Culture, edited by Geertz, A.W. 178-202; p. 197. Routledge: London and New York. Originally published by Acumen: Durham and Bristol, CT. Citazioni da Miller, G., The Mating Mind, cit., p.p. 423-424.

[8] Cf. Luzzatto, M. (2008). Preghiera darwiniana. Milano: Cortina. p. 48: «E se uno dimostra di sapere a memoria mille poesie, tre lingue, parla bene e sa inventare belle storie, non è forse più attraente agli occhi di un partner? Non potrebbe essere una coda di pavone anche quello?».

[9] Girotto, G., Pievani, T., Vallortigara, G. (2014). Supernatural beliefs: Adaptations for social life or by-products of cognitive adaptations? Evolved Morality: The Biology and Philosophy of Human Conscience, edited by Frans B.M. de Waal, Patricia Smith Churchland, Telmo Pievani, and Stefano Parmigiani. Leiden and Boston: Brill. , 249-266 DOI: 10.1163/9789004263888_019.


[10] Corbellini, G. (2011). Scienza, quindi democrazia. Torino: Einaudi, p. 136. Cfr. Trivers, R. (2011). Deceit and Self-Deception: Fooling Yourself the Better to Fool Others. London: Allen Lane. Trad. in italiano nel 2013 come La follia degli stolti. La logica dell'inganno e dell'autoinganno nella vita umana. Torino: Bollati Boringhieri.

[11] Campbell, A. (2013). A Mind of Her Own: The Evolutionary Psychology of Women. Second Edition, p. 117. Oxford and New York: Oxford University Press (2002 1a ed.). Citazione da (cit. da 208). Maltz, D. and Borker, R. (1982). "A Cultural Approach to Male-Female Miscommunication". In Language and Social Identity, edited by Gumperz, J., pp. 197-216: 208. Cambridge and New York: Cambridge University Press.

giovedì 19 maggio 2016

The Fate of a Healing Goddess _ Supplementary Material: Was the Antonine Plague really that bad?

My name is Antonine plague, queen of epidemics: Look on my (few remaining) documents, ye mighty historian, and despair!
Image: screenshot from Centurion: Defender of Rome, © 1990-1991, Magic Bits / EA.

My peer-reviewed paper The Fate of a Healing Goddess: Ocular Pathologies, the Antonine Plague, and the Ancient Roman Cult of Bona Dea was published in the Open Library of Humanities less than ten days ago. The contribution is included in a Special Collection entitled ‘Healing Gods, Heroes and Rituals in the Graeco-Roman World’ and edited by Panayotis Pachis (Aristotle University, Thessaloniki). If you haven't checked that issue out, you definitely should: it looks nothing short of amazing (added bonus: everything is available without paywall).
In the true spirit of open access, I am delighted to provide here an extended discussion on the reliability (or the lack thereof) of the most relevant ancient sources cited in my paper. You may consider this post as a sort of (quite informal) Supplementary material.
Comments are welcome!

I love this vintage poster! Next step: steampunk digital humanities.
Please be sure to check the OLH website!
Source: OLH
Was the Antonine plague really that bad? This banal question lays bare a crucial point. As noted lucidly by Christer Bruun, there are some persistent problems (2012). First of all, we should consider that in-group religious norms tend to strengthen belonging to any community against free-riders whose behaviour risks undermining the established moral code and subverting social relationship within the community and between the community and the god/s. The theodicic short-circuit between so many different cognitive domains, heuristics, and biases usually urges believers to undertake socially sanctioned - and possibly violent - actions. In the words of Richard P. Duncan-Jones, ‘Societies with no effective medical explanation for plague could easily blame it on human agency’ (Duncan-Jones 1996: 115). If the Antonine Plague was really that terrible, where are the ancient documents linking the outbreak of the plague to the persecution of scapegoats chosen among minorities?

Women, for instance, had already been the object of manic repression during the mid-Republic (331 BCE) when, after the death of some eminent men, the Senate sentenced 170 women to death because of the usual Roman obsession with female pudicitia plus paranoid concerns regarding conspiracy plots to poison high-ranking men with veneficia – which were probably just medicinal potions (Livy, Ab Urbe Condita Libri VIII 17; Pliny, Naturalis Historia, XXXIII vi 17; Valerius Maximus, Facta et Dicta Memorabilia, II v 3; see Cantarella 2010a: 70-73; venena were cited also as charge in the Bacchanalia affaire). As noted by Phyllis Culham, ‘It could simply be that an outbreak of illness was blamed on human agents and that women healers [i.e., initially two patrician, Cornelia and Sergia] were targeted’ (Culham 2004: 149). This precedent, expiated as a prodigium, set the route for other similar and more recent events in 180 BCE and 153 BCE (Cantarella 2010a: 70-75; Cantarella 2010b: 189-192). As far as I know, there is no mention whatsoever of women as scapegoats during the outbreak of the Antonine plague nor of the Bona Dea cult, which might be of interest if we consider that herbal medicines prepared by the priestess of the cult are attested (see Macrobius’ account in my paper). This absence, however, could be easily explained by the sheer scale of the disease and by a radically different social milieu (see Cantarella 1999).

Specifically regarding religious minorities, there is a handful of ancient sources (the most pertinent being the martyrdom in Lyon of a group of Christians, in 177 CE) of which, unfortunately, none is proven beyond reasonable doubt to be relevant (Bruun 2012: 153; the case of Lyon has been explained by a senatus consultum which allowed the use of criminals in the arena to cut down the cost of professional gladiatorial fights; ibid., 157). Yet, in a later and much different socio-political milieu, religious minorities (i.e., Christians) were struck by repression during the following outbreak of the so-called plague of Cyprian, from the name of the bishop of Carthage who described the symptomatology of this (probable) second wave of smallpox (ca. 251-270; see Stathakopoulos 2008; for the Christian theodicic explanation of this plague see Marshall 2008: 597). Interestingly, Bruun highlighted a consistent bias among historians to prefer the most catastrophic sources, which usually come from a much later date: Eutropius, Orosius, the sections of the Historia Augusta dedicated to Lucius Verus and Marcus Aurelius, and an epitome of Dio Cassius’ Ῥωμαϊκὴ Ἱστορία (LXXII xxiv 3-4), where he is reported to have famously written that ‘2,000 people often died at Rome in a single day’ during a new outbreak of the same plague (?) in ca. 189 (a guess ‘at least theoretically possible for the very large capital’ that was Rome; Scheidel 2013: 52).

When coeval sources are available, they are incomplete or not directly interested in covering the topic. Lucian of Samosata, for instance, wrote about the plague only when merely concerned to deplore the style chosen by two historians for their description of the disease (Crepereius Calpurnianus and, possibly, Callimorphus; see Πῶς δεῖ ἱστορίαν συγγράφειν 15-16, in Fowler and Fowler 1905: 109-136; cf. Bruun 2012: 129). Even the accounts of Galen might be doubted, for lack of precision: he wrote two different stories concerning the reason why he left the city of Rome, and only the later account clearly links the concern for leaving the city as soon as possible with the epidemic (see Bruun 2012: 145-146). Gilliam (1961) pinpointed the presence of Salus and Pietas in the numismatic record, without being able to detect any significant pattern (see Bruun 2012: 133). There is a significant amount of coeval legislation concerning peculiar situations which may recall the exceptional setting of an epidemics from the Digest, yet there are close to zero citations of the expected seriousness (Bruun 2012: 138-143).

Civil and religious documents possibly from the same period seem to be equally impervious to an unambiguous identification with the Antonine plague. Bruun lists three categories of relevant archaeological documents:
  1. six Eastern oracular responsa from Claros dealing with plagues (λοιμός), whose dating remains highly controversial;
  2. eleven Western inscriptions (one of which in Greek) with the same text (by imperial decree?), dedicated diis deabusque secundum interpretationem oraculi Clari Apollinis which an older generation of scholars ascribed to Caracalla’s concern for his own psychological and physical health, while more recent scholarship is inclined to identify with the consultation of Alexander of Abonuteichos by Marcus Aurelius himself. Interestingly, Alexander was the prophet behind the cult of the snake-god Glycon, and he was responsible for the diffusion of an oracle against the plague in the whole empire (cf. Lucian, Ἀλέξανδρος ἢ Ψευδομάντις, 36; in ibid. 48, however, the reason for the consultation might have been only the military campaign on the Germanic limes; Bruun 2012: 134, note n. 58);
  3. four bilingual inscriptions from the Roman Forum ex oraculo and dedicated to Athena, Zeus and the Ἀπωσίκακοι θεοί, possibly as a consequence of (2) (see Bruun 2012: 136-137 for discussion and bibliography; however, did the Ἀπωσίκακοι θεοί include Bona Dea? Was it possible not to think of her in the Roman Forum?).
It is well beyond the purview of this post to delve deeper into the analysis of these and other sources, which have already been assessed and discussed in the past. Suffice it to remark here that any rebuttal of these sources against a relation with the Antonine plague should take into consideration that the only reliable document dating from the well-attested Justininiac plague (dated 544 CE) merely concerns prices and salaries (Bruun 2012: 143).

Screenshot from the OLH homepage.
Source: OLH
To the list of possibly converging evidence, albeit questionable, we could add the increased recruitment of castris to ensure a flux of new soldiers after 168 CE (the Historia Augusta relate about the decision of Marcus Aurelius to enrol ‘freedmen, gladiators, Dalmatian and Dardanian bandits, and German tribesmen as soldiers’; Phang 2001: 342). Unfortunately no direct mention of the plague in the relevant sources, as usual. A matter of cultural sensibility, perhaps?
On the other hand, the terminus a quo for the rise of Christian apologetics is exactly the reign of Marcus Aurelius, and this fact may provide another clue to spot a significant change in the coeval mindscape (Bruun 2012: 155). Did Marcus Aurelius really mention simply en passant the plague in his Meditations because of its unimportance (Τὰ εἰς ἑαυτόν IX 2; but see also the reference to physicians and astrologers in ibid., IV 48)? Yet, he was a Stoic who was supposed to endure such dire situations.
Moreover, it could possibly be that the epidemic did not infect the whole empire. Duncan-Jones (1996), for instance, excluded Africa. However, we know from the available African inscriptions described in the paper that local military settlements were significantly devoted to Bona Dea, to Asclepius and Hygieia, and this for decades to come (Phang 2001: 342, note n. 77). Additionally, notwithstanding an approximate dating, the Roman African inscriptions testify to a significant devotion to Asclepius under the reigns of Marcus Aurelius and Commodus (Cadotte 2002; cf. Bruun 2012: 137 for an evaluation). Since the army was reputed the main vehicle of the epidemic since antiquity, a proposographical network analysis of the legions and their movements could provide us with the most interesting results.

It has also been noted that previous statistical analysis concerning the imperial building activity in Italy cannot yield definitive or convincing results of a decline from the 2nd century onward (Duncan-Jones 1996; Horster 2001). Bruun, who re-run the analyses to check them, argues that ‘the material lends itself to different conclusions, depending on the pattern one wants to see and the periods one construes’, not to mention the other factors at play which might swamp any identification such as ideological acts like ‘imperial self-glorification’ (Bruun 2007: 213). He also ‘underlined the fragility of this kind of proof by statistics’, while suggesting that the ‘dearth of projects under Marcus [Aurelius]’ might be an artefact due to the fact that many projects built under Hadrian might have been dedicated by Antoninus Pius (ibid.), therefore saturating the local demand (if any).

It could not be denied that, when approximate and fragmentary data rule, there could hardly be salvation in statistics. Yet, this is the only data available. In cases like this one, as ancient historians, we should be concerned with providing the most statistically plausible reconstruction at the time being, even if the data are nothing more than a historiographical cullender. This is a common theme in other historical natural sciences (palaeontology, palaeoclimatology, epidemiology, evolutionary biology, historical geology, cosmology). As Carol E. Cleland and Sheralee Brindell have observed, the causal connection of localised events studied by these sciences is characterised by an overdetermination of causes and an underdetermination of effects. As in our case, the main goal is to look for ‘telling traces’, or smoking guns, that ‘when added to the prior body of evidence establish that one (or more) of the hypotheses being entertained provides a better explanation for the total body of evidence now available than the other’ (Cleland and Brindell 2013: 194).

Contrary to what has been ascertained beyond any reasonable doubt for the spread of the Justinianic plague (Harbeck et al. 2013), in the case of the Antonine plague we still lack microbiological material from skeletal remains which might help researchers in narrowing the focus for further investigations. Unfortunately, we still rely on symptomatological descriptions from contemporary sources. Sure enough, a definitive answer will come from the recovery of microbiological analysis of samples from multiple, comparable, and trustworthy evidence, e.g., burial sites from the 2nd century CE in good taphonomic conditions. Yet, given that scientific results might still not yield definitive answers (see Manley 2014: 395), interdisciplinary historiographical research might unexpectedly contribute to uncover some distinct patterns, possibly more epistemically reliable than before. In the meantime, we can continue to gather epistemically warranted evidence in the framework of a consilience of induction, which, is consistently pointing to a pattern of anomalies from different historical sources.
Until proven otherwise, of course.

References

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