lunedì 28 gennaio 2013

Guest post: Perché esistono gli altri? Rifessioni sull'evoluzione di Andrea Cau

Sono felice di presentare ai lettori una riflessione sui concetti basilari dell'evoluzione scritta da Andrea Cau, naturalista, paleontologo e gestore del blog Theropoda. L'illustrazione che potete ammirare qui sotto è invece un'opera inedita di Fabio Manucci (blog Agathaumas), e rappresenta un'originale interpretazione (paleo)artistica dei concetti delineati nel post.
A entrambi vanno i miei più sinceri ringraziamenti.

Buona lettura!

Metapode, di Fabio Manucci, 2013 (per una variazione sul tema si rimanda a questo link).
La forma generale è basata su una ricostruzione scheletrica di Acanthostega. Dal lato sinistro del busto si diramano arti anteriori diversificati per funzione, simili per struttura; dall'alto verso il basso, rispettivamente: un'ala di pipistrello, la zampa di una rana e la pinna di un cetaceo. La morfogenesi autonoma dell'arto destro riguarda un topo. La coda suggerisce un'unica origine; coda e radici filogenetiche (espanse in un cladogramma in fieri) proseguono oltre i confini dell'immagine, ad indicare la continuità evolutiva in un senso e nell'altro (origini e future radiazioni). I crani fossili alla base illustrano figurativamente la vastità di linee morte o fantasma e, pertanto, le possibilità evolutive contingenti rimaste inesplorate.
«Siamo tutti legati in un’unica rete»
Charles Robert Darwin, taccuini giovanili, 1837 [1]

Ognuno di noi è unico ed irripetibile.
Questo fatto, tradotto in concetto, fonda il linguaggio umano, che nella parola “io”, il simbolo del soggetto autoreferente, trae il suo primissimo postulato di operatività. Ma senza un “noi”, l'io umano non può esistere. Animale eusociale, Homo sapiens si distingue dalla maggioranza degli altri animali altamente sociali per il fatto di essere contemporaneamente un “noi” ed un “non-voi”. In breve, l'uomo è un asociale sociale. Diamo così scontata questa commistione di contraddizioni, la contingenza irripetibile dell'io e la necessità del noi, che per migliaia di anni il quesito fondamentale di quale sia l'origine di questi due simboli non è stato mai affrontato, se non in forme vaghe e poco consapevoli delle implicazioni. Perché esistono gli “altri”, così simili eppure diversi da ognuno di noi? E perché, pur nella nostra irrisolvibile unicità, che ottusamente si ripiega costantemente su sé stessa, ogni qual volta ci soffermiamo sui fondamenti del “noi”, scopriamo che esso è enormemente più vasto dell'io?

Per oltre due millenni, il pensiero occidentale ha dedotto la dicotomia “io-noi” partendo dall'io. Se l'io esiste, e se è unico ed irripetibile, invariante e inscindibile, allora deve esiste un Io Assoluto dal quale tutti gli “io” particolari traggono la loro essenza di unicità. La diversità tra gli individui è stata quindi interpretata come “accidentale”, contaminazione e corruzione materiale di una purezza iperuranica che trova nell'Uno la sua manifestazione più astratta. Se estendiamo questo modo di ragionare alla descrizione della Natura, otteniamo l'interpretazione fissista del mondo biologico. Le specie sono invarianti, “io” astratti di cui ogni individuo è solamente una manifestazione accidentale, una lieve deformazione corrotta dal mondo fisico, un effetto secondario ed effimero, una “variazione sul tema”. Conseguenza di questa visione della diversità naturale, è l'idea che tra due specie non possa esistere alcun individuo “intermedio”, poiché è inconcepibile che esso sia “manifestazione” di un vacuum tra due entità fisse separate. Qualora esista, esso è un ibrido sterile, un bastardo, un errore vivente, marchiato dall'infamia di non poter generare altra vita. Eppure, questa concezione della natura, così intuitiva, ovviamente palese, e così rispondente alle nostre intime istanze egocentriche e centripete verso l'unicità, è solo una delle alternative possibili con cui l'ancestrale dicotomia tra io e noi può essere risolta.
Esiste una seconda versione, ed è quella che parte dal noi per dedurre l'io, quella che assume la “variazione” come fondamentale, ed il “tema” come mera astrazione del fondamento. Apparentemente meno intuitivo, forzato ed imposto arbitrariamente, questo rovesciamento dei ruoli è però straordinariamente fecondo. La conseguenza più radicale di questa seconda concezione è che ogni “io” che non sia incontrovertibilmente atomico è solamente una sommatoria di “noi”. Ogni individuo è un aggregato di cellule, appartiene ad una popolazione, che a sua volta è parte di una specie, specie che è parte di una sequenze di forme che mutano nel tempo la loro rappresentatività nell'ambiente.
Possibile che le “specie”, che sono state introdotte proprio per la loro palese unicità, solidità, concretezza, inscindibilità ed inmiscibilità, siano poco più che nebulosi aggregati, se non, terribile a dirsi, dei meri contenitori fondati su criteri arbitrari?

La specie è un concetto, e come tale è vincolato al sistema che lo produce, elabora e utilizza. La mente umana ha dei limiti intrinseci, di portata, capacità, sensibilità e potenza. Le specie nascono all'interno del mondo concettuale possibile alla mente umana. Ma tale mondo, proprio perché rappresentazione, non comprende la totalità dei fenomeni osservabili. Eppure, tale “concetto” è estremamente affidabile, fintanto che lo si applica al contesto in cui è stato elaborato. Fuori da tale contesto, il concetto viene meno, perde di potenza e di affidabilità, requisiti fondamentali per uno strumento. Se introduciamo i tempi geologici, le specie entrano in crisi, e si risolvono nello stesso modo con cui le loro sotto-unità elementari si riducevano a “variazione sul tema”, esattamente come gli individui apparivano effimeri e secondari manifestazioni di entità più ampie.
In analogia con la specie, anche la storia è un concetto vincolato al contesto in cui è stato elaborato. La storia, come serie di cause ed effetti riconoscibili ed interpretabili, “funziona” soltanto quando applicata alla scala temporale in cui la mente umana è, per sua natura, capace di funzionare. La storia ha senso tra i secondi e i secoli, sfuma e sbiadisce ai confini di tale intervallo, perde senso qualora la dimensione dei fenomeni si allontani ulteriormente dal confortante livello del mesomondo.
Specie e storia, assieme, formano la Storia Naturale. Eppure, paradossalmente, la Storia Naturale, nella sua struttura fondamentale, “esiste” soprattutto oltre quei limiti originari di specie e storia in cui agisce la vita umana. Pertanto, è necessario un diverso sistema di concetti per affrontare pienamente la Storia Naturale.
La teoria dell'evoluzione darwiniana è, ad oggi, il solo sistema teorico che affronti in modo soddisfacente la Storia Naturale. L'avversione verso il darwinismo che persiste in alcuni ambiti culturali è, almeno in parte, legata al fatto che esso affronti con successo ambiti nei quali le tradizionali categorie dell'io, la storia e la specie, falliscono. E con quel fallimento, decadono tutte le pretese di universalità ed esaustività che ogni sistema (più o meno) filosofico fondato sull'astrazione dell'Io (l'Uno, L'Eterno e l'Essere) ha arrogato per buona parte della storia del pensiero occidentale.
La Teoria Darwiniana si basa su cinque teorie distinte ma connesse, sulle quali a sua volta si articola una struttura tricuspidata, un triangolo, che definisce modi e mezzi del divenire nella Storia Naturale. A differenza di larga parte delle concezioni del mondo “io-centriche”, nate come astrazione convalidata dall'immediatezza, il darwinismo è un'elaborazione non immediata supportata da una amplissima base empirica. Proprio perché così controintuitivo, il sistema darwiniano ha dovuto attendere che l'accumulo delle prove fosse sufficientemente massivo da erumpere in virtù della sua stessa mole. Non è possibile rigettare tutte e quante le prove del darwinismo, dalla zoologia, biogeografia, genetica, anatomia comparata, paleontologia, antropologia, ecologia, fisiologia e tassonomia, senza produrre obiezioni a tale argine e contraddizioni più pesanti delle stesse prove che si vorrebbe rimuovere. Negare ciò, quando non è capziosamente frutto di una deliberata negazione della documentazione scientifica, è ormai considerato irrazionale al pari della negazione della meccanica dei quanti o della relatività generale.

Triangolo attativo; immagine di Andrea Cau. La didascalia contenuta nella summa di Stephen J. Gould recita: «Il classico diagramma triangolare per raffigurare le cause fondamentali della forma come funzionali (adattamenti immediati alle circostanze attuali), storiche (ereditate per omologia, quale che sia la base dell'origine ancestrale) e strutturali, ovvero derivanti come conseguenza fisica di altri caratteri o direttamente della natura delle forze fisiche che agiscono sui materiali biologici. Tutti i vertici possono produrre tratti attativi di grande utilità per l'organismo» [2].
Una volta riconosciuto il valore delle innumerevoli (e continuamente aggiornate) prove a sostegno del darwinismo, ci si può addentrare nel sistema tricuspidato della teoria, per esplorarne la variegata geografia.
Entriamo nel Triangolo dal suo vertice più famoso e frainteso, quello Funzionale. Esso è l'ambito di studio della selezione naturale, un termine sovente malinteso, al quale è stata purtroppo associata una qualche forma di “intenzione” e di “attiva partecipazione” al processo evolutivo. In realtà, la selezione naturale è solamente un termine contratto per esprimere il “successo differenziale di entità capaci di generare una numerosa discendenza simile al progenitore”. Tutti quei fattori che aumentano la probabilità che un organismo generi prole a sua volta capace di procreare sono, per definizione, parte della selezione naturale. Non occorre mistificare e demonizzare questo fenomeno che, alla fine, è solamente una mera conseguenza del fatto che gli organismi generano una discendenza numerosa, la quale essendo molto simile, ma non identica, al proprio genitore, tenderà a sua volta a generare prole numerosa. Per quanto “mero effetto” della riproduzione così come avviene negli organismi sulla Terra, la selezione naturale è un processo capace di produrre una grandissima gamma di strutture, comportamenti e interazioni. Proprio perché la più famosa e “potente” delle forze evolutive, la selezione naturale ed i suoi effetti sono stati il tema principale della letteratura biologica dell'ultimo secolo.
Ma l'evoluzione non si risolve solamente nella selezione naturale, per quanto potente e pervasiva essa sia. Se ci allontaniamo dal Vertice Funzionale e ci portiamo verso il centro della metaforica triade, abbiamo due scelte (che sono, va sottolineato bene, sopratutto scelte metodologiche di indagine, non “mondi” distinti dell'unico processo evolutivo): da un lato, abbiamo il Vertice Strutturale, nel quale sono preponderanti tutti quei fattori di natura non-funzionale e non direttamente plasmati dalla selezione naturale, ma che nondimeno concorrono al processo evolutivo. Il Vertice Strutturale è il dominio dei processi di costruzione degli organismi (embriogenesi), è il fulcro da cui partono i vincoli di natura fisica e chimica che incanalano e frenano la potenziale esuberanza della selezione naturale. Ad esempio, il fatto che gli animali acquatici abbiano sovente una forma idrodinamica è un prodotto della selezione naturale (il successo differenziale, protratto nel tempo, di individui con quella forma in quell'ambiente, rispetto ad individui con forme alternative), ma il motivo per cui tale forma sia proprio quella fusiforme e non altre è prima di tutto un vincolo strutturale di natura fisica (le leggi dell'idrodinamica).
Infine, e l'ho collocato in fondo solamente perché è il mio ambito preferito, abbiamo il Vertice Storico, ovvero, l'insieme dei fattori che influenzano l'evoluzione in virtù delle contingenze storiche ereditate dagli organismi. Il Vertice Storico è il dominio della sistematica, dato che noi classifichiamo gli organismi in base alle somiglianze derivanti dalla comune discendenza da antenati dotati di tali somiglianze, e non per attributi di natura funzionale (per questo, ad esempio, classifichiamo i delfini come mammiferi, e non come squali, nonostante che, nella forma del corpo, un delfino ricordi più uno squalo che un bovino). Il vincolo storico è la causa di moltissimi attributi degli organismi, altrimenti “poco chiari”. Noi abbiamo cinque dita nelle mani non per un qualche “vantaggio” intrinseco che quel numero di dita conferisce alla specie umana, ma solamente perché quel carattere è stato ereditato, senza mutare, ininterrottamente per 300 milioni di anni, in animali nostri antenati, che durante questo lunghissimo intervallo di tempo hanno vissuto in ambienti con condizioni funzionali e strutturali spesso molto diverse tra loro. Può essere che in origine, quell'attributo sia stato plasmato dalla selezione naturale, ma la sua presenza oggi nei nostri corpi è prima di tutto un vincolo storico, un'eredità di qualcosa comparso molto indietro nel passato. Al tempo stesso, è interessante constatare come la struttura scheletrica della mano abbia una geometria che allude a vincoli fisico-strutturali. Questo esempio dimostra che ogni prodotto dell'evoluzione è una sintesi di fattori provenienti dai tre vertici dell'unico triangolo.
Come accennato prima, difatti, i tre vertici non sono ambiti slegati ed indipendenti bensì coesistono e si influenzano a vicenda: l'Evoluzione è, infatti, il continuo avvicendarsi e mescolarsi di fattori storici, strutturali e funzionali, ogni volta con modi e importanza differenti a seconda delle condizioni. Per questo, non è possibile comprendere ed apprezzare l'evoluzione se non si ha piena consapevolezza della sua natura tricuspidata, della commistione inscindibile di fattori strutturali “atemporali” dovuti all'invarianza delle leggi della fisica e della chimica a cui ogni organismo deve sempre sottostare, di fattori funzionali adattativi che “premiano” gli individui con il maggior successo riproduttivo in quel preciso momento e luogo, e di fattori storici, di eredità pre-esistenti che incanalano e indirizzano lungo determinati percorsi il destino evolutivo di ogni specie.

Tornando alla domanda iniziale, perché esistono gli “altri”, così simili eppure diversi da ognuno di noi? Perché ognuno di noi è imparentato ad ogni altra forma di vita, in quanto tutti prodotti da un processo di diversificazione comune (primo vertice), intrinseco alla struttura del codice genetico comune (secondo vertice), il quale, data la sua non-riconducibilità diretta dalle leggi della chimica, deve essere stato ereditato da un ancestrale progenitore comune (terzo vertice).

[1] C.R. Darwin, Taccuini 1836-1844 [Taccuino Rosso, Taccuino B, Taccuino E, , ed. it. a cura di Telmo Pievani, Prefazione di Niles Eldredge, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 218 (ed. or. integrale: Paul H. Barrett, Peter J.Gautrey, Sandra Herbert, David Kohn e Sydney Smith [eds.], Charles Darwin’s Notebooks, 1836-1844: Geology, Transmutation of Species, Metaphysical Enquiries, Cornell University Press, Ithaca 1987).
[2] Stephen J. Gould, La struttura della teoria dell’evoluzione, ed. it. a cura di T. Pievani, Codice edizioni, Torino 2003, p. 1311 (ed. orig. The Structure of Evolutionary Theory, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge-London 2002).

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