sabato 4 febbraio 2012

Il grande equivoco: "evoluzione" non equivale a "progresso"

Terza cultura italiana: storia di un incontro mancato. 
Parte II [intermezzo sintetico]

Una variazione sul tema dello schema classico della direzionalità nell'evoluzione. Modificato da Human Evolution Scheme, reperibile su Wikipedia, opera di  M. Garde su un disegno di J.-M- Benitos.
Uno degli impieghi ordinari del vocabolo “evoluzione” nei secoli precedenti la rivoluzione darwiniana era la definizione di uno sviluppo ordinato, predeterminato. Da qui all'associazione con qualcosa di inevitabilmente progressivo e tendente alla maggiore complessità in senso assoluto il passo è stato storiograficamente breve. Il concetto ha una lunga e complessa storia, ma basti dire che quando Darwin pubblicò la prima edizione dell'Origine delle specie (1859), il concetto stesso del cambiamento evolutivo non era più così in voga nelle terre inglesi, soppiantato dalla notorietà della teologia naturale adattamentista di William Paley (1743-1805). Mentre la “trasmutazione” (così era nota in precedenza l'idea dell'evoluzione biologica) era stata à la page nel corso del '700 e in varie accezioni filosofiche, soprattutto nella Francia di Lamarck e dei tanti epigoni che si dedicarono al tema, nell'Inghilterrra del primo Ottocento l'attenzione nei confronti dell'argomento era scemata anche a causa dell'atmosfera controrivoluzionaria ispirata della rivalità politica anglo-francese [1]. In effetti, nella prima edizione del libro di Darwin il termine non compare (è utilizzato invece in quella del 1872). L'atmosfera e l'indirizzo della cultura generale dell'epoca è responsabile di questo pensiero che Darwin affidò ad una lettera datata Down, 11 gennaio 1844, e indirizzata al suo amico e corrispondente Joseph Dalton Hooker: «Alla fine, si è acceso un barlume di luce, e io sono quasi convinto (un’opinione opposta a quella che nutrivo all’inizio) che le specie non siano (è come confessare un omicidio) immutabili. Il cielo mi scampi e liberi dalle insensatezze di Lamarck di una  “tendenza al progresso”, di “adattamenti derivanti dalla lenta volontà degli animali”, eccetera – ma le conclusioni a cui sono indotto non sono molto diverse dalle sue – sebbene i mezzi del cambiamento lo siano completamente – io penso di aver scoperto (ecco la presunzione!) il semplice modo mediante il quale le specie si adattano mirabilmente a vari fini» [2]. Esporsi pubblicamente nello stesso ambiente culturale inglese che aveva accolto in modo feroce le Vestiges of the Natural History of Creation del 1844, il cui autore Robert Chambers (prudentemente celato sotto anonimato) era stato sovente tacciato di ateismo, significava per Darwin quasi confessare un delitto.
In secondo luogo, l'influenza del cosiddetto “darwinismo sociale” di Spencer nella seconda metà del secolo confuse maggiormente il panorama filosofico della biologia evoluzionistica. Per farla breve: in campo biologico, “evoluzione” è un concetto che non deve essere mai considerato equivalente o confuso con “progresso”. «Il darwinismo non solo non incentiva ma impedisce di porre le questioni evoluzionistiche in termini di arretratezza/progresso. […] L’evoluzione è adattamento (gli adattamenti più disparati), e se tutte le specie sono egualmente bene adattate alle loro condizioni di esistenza, nessuna però lo è perfettamente. Per cui […] nessuna specie può essere assunta come “migliore” di un’altra» [3]. Purtroppo nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, la tendenza culturale era quella di identificare il progresso biologico assoluto con l'“evoluzione” tout court. Perciò l’opera spartiacque di Charles Robert Darwin fu spesso assimilata, e ancor più spesso stravolta, secondo le deformanti griglie concettuali della cultura generale dell’epoca: «per ironia della sorte […] il padre della teoria dell’evoluzione rimase praticamente l’unico a insistere che il cambiamento organico conduce solo a un crescente adattamento degli organismi all’ambiente e non a un astratto ideale di progresso caratterizzato dalla complessità strutturale o da una crescente eterogeneità: mai dire superiore o inferiore» [4]. Lo stesso schema tipico dell'evoluzione umana, diretto in modo finalistico verso Homo sapiens come traguardo ultimo della storia biologica del pianeta, è stato smantellato negli ultimi tempi dall'aumento delle conoscenze paleoantropologiche: non una sfilata unidirezionale di forme sempre più progredite indirizzate verso l'uomo attuale, ma una pletora di forme che hanno convissuto fino a una cinquantina di migliaia di anni fa, una ramificazione a cespuglio piuttosto che un albero, della quale noi oggi siamo gli ultimi testimoni rimasti [5]. Riguardo poi alla purtroppo ben nota espressione della "sopravvivenza del più adatto", occorre segnalare che il senso e la paternità dell’espressione non sono darwiniane (Darwin «non si stancò mai di allontanare risolutamente la sua teoria da qualsiasi implicazione sociale e politica»): «l’espressione “la sopravvivenza del più adatto” fu coniata da Herbert Spencer (1820-1903) negli anni Sessanta dell’Ottocento e fu adottata prima da [Alfred Russel] Wallace [naturalista ed esploratore inglese (1823-1913), sviluppò una teoria evolutiva della selezione naturale indipendentemente da Darwin. NdA.] e poi, con qualche ritrosia, da Darwin nella sesta edizione dell’Origine delle specie (1872)» [6].

continua...

[1] Cfr. James A. Secord, Darwin globale, in J.A. Secord, Sean B. Carroll, Steve Jones, Paul Seabright e John Dupré, Darwin. L'eredità del primo scienziato globale, Zanichelli, Bologna 2011, pp. 11-48 [ed. ridotta dell'or. W. Brown e A.C. Fabian (eds.), Darwin (The Darwin College Lectures), Cambridge University Press, Cambridge 2010].
[2] Charles Robert Darwin, L'origine delle specie. Abbozzo del 1842. Lettere 1844-1858. Comunicazione del 1858. A cura di Telmo Pievani, Einaudi, Torino, 2009, pp. 69-71 [link al testo].
[3] Giulio Barsanti, L’uomo e gli uomini: lettura storica, in Giacomo Giacobini (a cura di), Darwin e l’evoluzione dell’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. 19-27, p. 25.
[4] S.J. Gould, Il dilemma di Darwin: l’odissea dell’evoluzione, in id., Questa idea della vita. La sfida di Charles Darwin, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 28 (ed. or. Ever since Darwin. Reflections in Natural History, W.W. Norton & Co., New York 1977; art. pubbl. or. come Darwin’s Dilemma, in «Natural History» 83, 1974, pp. 16-22).
[5] Cfr. per una sintesi esaustiva, Telmo Pievani, Il non senso dell'evoluzione umana, in «MicroMega. Almanacco della scienza», 1, 2012, pp. 3-15 e id . e Luigi Luca Cavalli Sforza, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, Codice edizioni, Torino 2011.
[6] T. Pievani, Introduzione alla filosofia della biologia, Laterza, Roma-Bari 2010 (1a ed. 2005), p. 8.

1 commento:

  1. Occorre fare una precisazione tra i termini in italiano e in inglese e il loro differente grado di ambiguità e suscettibilità al fraintendimento. Darwin media il termine "survival of the fittest" da Spencer (il quale aveva elaborato il termine sulla base di un'analogia che egli colse tra le dinamiche in natura di e da Darwin ed il sistema sociale), ma Darwin stesso ritenne "survival of the fittest" preferibile al suo originario "natural selection" in quanto quest ultimo aveva connotati personalistici (la Natura che seleziona allo stesso modo dell'atto conscio del selezionatore di razze domestiche).
    Credo che parte del disguido almeno in ambito italiano derivi dalla traduzione del termine "fittest" con il più ristretto "più adatto". il "fittest" darwiniano è tratto dalla metafora dello stesso Darwin dei cunei conficcati sul tronco, con i "fittest" semplicemente quelli che in quel momento sono meglio conficcati nel tronco. "Fittest" in inglese ha infatti un ventaglio di connotazioni maggiore dell'italiano ad-atto (traducibile etimologicamente con "tendente all'atto") quest'ultimo chiaramente aristotelico e quindi fortemente finalistico e suscettibile di connotare qualcosa in senso "assoluto" e non contingente.
    Se ho anticipato qualcosa mi scuso.

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